Per questo motivo, in momenti di crisi come quello che viviamo, non sono pochi i paesi che cercano di ritardare il più possibile gli impegni climatici: è pre-tattica, per così dire, per studiare le mosse dei rivali. E arriviamo all’oggi.
Gli Ndc andavano presentati a febbraio, dicevamo, ma quasi nessuno l’ha fatto e la scadenza è stata così prorogata al 30 settembre. L’Unione europea arriverà di nuovo lunga, nella migliore delle ipotesi: sul tavolo ha messo solo una dichiarazione d’intenti che la impegna a ridurre le emissioni di un range compreso tra il 66,25% e il 72,5% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2035. Se ne discuterà per l’approvazione finale al prossimo Consiglio europeo. Dove, peraltro, sul piatto ci sarà anche la possibilità di innalzare l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2040, portandolo al 90%.
Bruxelles (voto 5: gambe molli) non è la sola. Ma dal momento che l’elenco dei lavativi è troppo esteso, chi sono, allora, i primi della classe? Premesso che è tutto relativo (presentare un Ndc non significa in automatico che sia sufficiente, tutt’altro), nella colonna di chi ha fatto i compiti ci sono Santa Sede, Nicaragua, Giamaica, Serbia, Eswatini, Honduras, Tunisia, Nigeria, Giordania, Cile, Tonga, Mongolia, Vanuatu, Micronesia, Pakistan, Liberia, Australia, BrasileCanada, GiapponeKenya, Nepal, Nuova Zelanda, Singapore, Svizzera, Emirati Arabi Cina e Stati Uniti. Proviamo ad analizzare i principali.
C’era grande attesa per l’Ndc di Pechino, che ha senz’altro il potere di condizionare quello degli altri. La Cina è il primo emettitore al mondoma anche il paese più avanzato sul fronte delle rinnovabili dal punto di vista tecnologico, quello con la maggiore potenza installata e quello che le sta adottando con il passo più rapido. L’obiettivo comunicato da Pechino mercoledì sera promette un taglio delle emissioni che si ferma al 7-10% entro il 2035: insufficiente, ritengono gli esperti, rispetto al 30% che sarebbe stato necessario sulla base delle analisi, ma si tratta della prima volta che la Cina promette una riduzione invece che un freno alla crescita delle emissioni. Pechino, insomma, non si intesta la leadership climatica come speravano gli ambientalisti, ma non tutto è da buttare: il governo punta infatti a raddoppiare la capacità rinnovabile installata nel giro di dieci anniun binario su cui il paese è ben avviato, dal momento che, all’inizio del 2025, la capacità generativa di eolico e solare ha superato quella del carbone. Evidente il contrasto con le politiche di Trump. La buona notizia è che, se Pechino decidesse di uscire allo scoperto con un obiettivo ancora più ambizioso, non avrebbe problemi a realizzarlo. La motivazione, ovviamente, è che non è soggetto alle regole democratiche. E questo, per il clima, si è spesso dimostrato un vantaggio. Voto 6,5: la marcia è lunga. Ma comincia con il primo passo.
Si trovano in una situazione particolare. Washington si è ritirata per la seconda volta dall’Accordo di Parigi (una riedizione di quanto accaduto ai tempi del primo mandato presidenziale di Trump) e ha praticamente annullato tutti gli impegni presi da Joe Biden al 2030, 2035 e 2050: così, invece di accelerare il passo, la riduzione delle emissioni rallenterà. Peraltro, nemmeno l’Ndc di Biden era allineato alla soglia di 1,5 gradi; ma il presidente democratico aveva se non altro messo in campo alcuni strumenti per la mitigazione che il miliardario newyorchese sta smantellando. Non solo. Martedì 23 settembre Trump ha tenuto un delirante discorso alle Nazioni Unite in cui ha ribadito il proprio negazionismoadditando “rinnovabili e migrazioni” come problemi principali del declino del mondo occidentale. Il cambiamento climatico, per l’inquilino della Casa Bianca, sarebbe “la più grande truffa mai perpetrata nella storia“. Va ricordato che la grandissima maggioranza degli scienziati ritiene che, invece, sia una verità incontrovertibile. Ma, parole sue, si tratta di previsioni “sbagliate”, fatte da “persone stupide”. Negli Usa infuria la battaglia interna sul clima: ed è significativo che molti Stati della federazione non allineati con le politiche di Washington siano rimasti impegnati a mantenere le traiettorie precedenti, anche facendo ricorso ai tribunali. Voto 2: non è 0 perché (sfortunatamente) c’è ancora la possibilità di fare peggio.
Nei giorni scorsi ha annunciato il proprio Ndc in pompa magna. Canberra ridurrà le emissioni di almeno il 62% rispetto ai livelli dell’anno preso a riferimento, il 2005. Si tratta di uno dei più grandi inquinatori in termini di emissioni pro-capite al mondo, anche perché fa uso massiccio di carbone. L’Australia non gode di buona reputazione nelle conferenze del clima e presentare l’obiettivo in anticipo rispetto agli altri è quindi una notizia. Ancora presto per capire se sia un segnale di cambiamento strutturale. Voto 5: tanto fumo, poco arrosto.
È il paese della Cop30 e per questo ha presentato il proprio Ndc a novembre del 2024, un anno prima della conferenza più instagrammabile di sempreche manca però ancora di sostanza e contenuti. Mossa mediatica, dunque, con l’obiettivo di presentarsi inappuntabili. L’obiettivo principale è la riduzione delle emissioni di un range compreso tra il 59% e il 67% rispetto al 2005 entro il 2035. I ricercatori del progetto indipendente Climate action tracker concludono, però, che è difficile giudicare quanto sia valido il target di Luladal momento che il governo non ha fornito dati sufficienti a valutarlo. Soprattutto, mancano informazioni riguardo al tema del consumo di suolo, grande spada di Damocle che pende sul Paese che ospita buona parte della foresta amazzonica. Il testo nel complesso non sarebbe comunque in linea con l’obiettivo degli 1,5 gradi. Voto 5: dove sono le telecamere?
Ha presentato il suo testo a febbraio. Ritenuto insufficiente da Climate Action Tracker (Cat), ridurrà le emissioni del 45%-50% rispetto al 2005. Ottawa potrebbe però aumentare l’ambizione con un colpo di teatro nei prossimi giorni. Voto 5,5: sulla fiducia.
Ha promesso di ridurre le emissioni del 65% rispetto al 1990ma – osserva Cat – fa ampio ricorso al mercato dei crediti di carbonio, un complicato meccanismo di quote che sostanzialmente consente di comprare la possibilità di inquinare (concessa dagli accordi) da chi (spesso per ragioni strutturali: è un paese poco sviluppato) ne dispone in eccesso. Voto 4,5: solita zona grigia.
Se c’è chi fa fatica a fare promesse, gli Emirati (che hanno ospitato la Cop28 di Dubai) dal canto loro hanno presentato un obiettivo di riduzione estremamente ambizioso. Al punto da essere giudicato poco credibile. Il paese, però, sta pensando seriamente a un domani senza petrolio – e a quelle latitudini non è uno scherzo. Per riuscirci, punta su energia solare e nucleare con grandi progetti, alcuni avviati. Non è un caso che ad Abu Dhabi abbia sede l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili, diretta dall’italiano Francesco La Camera. Voto 5: come al militare, rivedibile.
Altro paese in grossa crescita, come la Cina, anche di rinnovabili. Al momento in cui scriviamo non ha ancora presentato il proprio obiettivo, ma la stampa locale non si aspetta un testo particolarmente ambizioso. Buone notizie: a luglio Nuova Delhi ha annunciato che la quota di produzione elettrica da rinnovabili e nucleari (quindi non da fonti fossili) ha superato il 50%. Voto 5: il ragazzo ha potenzialità, ma non si impegna.
Dolce verso il fondol’Italia
E l’Italia? Dal momento che l’Unione europea ha aderito all’accordo di Parigi come organizzazione di integrazione economica regionale, l’Ndc italiano è allineato a quello continentale. Bruxelles fatica a trovare un accordo: troppo differenti le priorità, con paesi (per esempio la Polonia) che si affidano ancora pesantemente al carbone. Contrari ad alzare l’ambizione climatica anche Slovacchia e Ungheria. I più verdi sono i nordici e la Spagna; la Germania tiene il piede in due scarpe per la forte dipendenza dal gas, mentre la Francia ha problemi interni che sconsigliano di prendere posizione su un argomento che, come visto, coinvolge l’economia. Quanto al governo Meloni(voto 4: la repressione ai manifestanti del clima non è un titolo di merito) la presidente punta sulle fonti fossili con il cosiddetto piano Mattei e non è mai stata particolarmente green. L’idea nascosta (neanche troppo) è perseguire la riduzione delle emissioni con il nucleare di quarta generazione. E la fusione, che però non è all’orizzonte almeno per i prossimi vent’anni. Il mosaico europeo conduce inevitabilmente allo stallo di questi giorni: ultima fermata (per decidere), il Consiglio europeo di fine ottobre. Sarà quella la resa dei conti.