Sarajevo e la guerra che ritorna: così Gaza sta riaprendo le ferite in Bosnia

Sarajevo e la guerra che ritorna: così Gaza sta riaprendo le ferite in Bosnia


Sarajevo – IO volti degli amici morti a Sarajevo. La testa spaccata del fidanzato all’obitorio. I frammenti del cervello di uno sconosciuto incollati ai capelli. Aida Cerkez credeva di aver dimenticato. Per trent’anni ha convissuto con l’illusione di aver superato la guerra. Poi, un video sì Gazaun bambino che piange. E l’orrore è tornato. Oggi giornalista dell’Organized crime and corruzione reporting project (Occrp)Cerkez ha raccontato per l’Stampa associata gli anni più duri di Sarajevo: il lungo assedio, dodicimila morti, la vita stretta nelle mani dei cecchini. Ricordava solo gli episodi più buffi: la volta in un campo minato con stivali di gomma a pois rosail papà che pretendeva un passaporto dell’Impero austro-ungarico e nessuno poteva contraddirlo, tecnicamente aveva ragione, era nato lì. Pensava di esserne uscita senza ferite. Si sbagliava.

Ad agosto tutto è riaffiorato. Le è bastato vedere Abdullah, quattro anni, palestinese. Uno scheletro, con il ventre gonfio, che urlava davanti alla telecamera: “Ho fame, ho fame”. Portato in Turchia per essere curato, Abdullah è morto lo stesso. Per Cerkez è stato un flashback. Di nuovo, l’assedio. Di nuovo, il figlio caricato in fretta su un autobus per la Germania, le granate, i proiettili e le urla in strada dei feriti, che hanno ripreso a tormentarla. Non poteva aiutarli, le avrebbero sparato. “Ho iniziato a non dormire più, piangevo di continuo. Quando sono crollata davanti a uno scaffale del supermercato perché non c’era il burro d’arachidi, ho capito che dovevo andare da un medico”, racconta Cerkez a Cablato. Disturbo post-traumatico da stressè la diagnosi. La cura: medicine, niente tv, né smartphone. “Tradotto: la guerra non ti lascia mai, anche quando pensi di averla lasciata alle spalle”, sintetizza.

Gaza e Sarajevo

Non è un caso isolato: “Sappiamo cosa significa vivere sotto assedio, sopravvivere a un genocidio. Le immagini da Gaza fanno da trigger, ci colpiscono nel profondo, e scatenano una reazione emotiva molto forte”, conferma la psicologa Aida Fatic, che lavora per prevenire la violenza di genere. Perché i traumi della guerra, spiega Fatic, possono acquisire mille forme e altrettante sfaccettature, ma restano. Alcuni esplodono subito, altri rimangono sepolti per anni per poi detonare all’improvviso, come nel caso di Cerkez. Sarajevo ha bucato.

Un edificio di Sarajevo dove sono ancora visibili i segni dei proiettili

Qui l’assedio è ancora presente, palpabile. Ci sono le cicatrici visibili: vecchi palazzi crivellati di colpi nascosti dietro i grattacieli moderni del centro commerciale. Come quello di fronte al ponte Vrbanja, dove nel 1993 un cecchino uccise Moreno Locatellipacifista italiano dei Beati costruttori di pace, durante una marcia. E ci sono le cicatrici invisibili: “Ansia, depressione, insonnia, sono disturbi che rimangono oggi frequenti tra la popolazione”, continua la psicologa. Secondo un recente studio, un milione e 750 mila persone in Bosnia ed Erzegovina soffrono di disturbi post-traumatici da stress. Ex soldati che si svegliano nel cuore della notte convinti di aver sentito l’allarme antiaereo. Donne che non riescono a smettere di vedere la morte di una sorella. Ferite che non si chiudono mai.

Di genitori in figli

Un trauma che non si ferma con chi la guerra l’ha vissuta in prima persona. “Si trasmette di generazione in generazione”, spiega a Cablato Branka Antic Stauberpsicologa e fondatrice di Sanga Žene, un’organizzazione nata per aiutare le donne che hanno subito violenze durante il conflitto e i loro figlioggi presente in 14 città. “Spesso i figli — assicurazione Antic Stauber — sviluppano gli stessi disturbi delle madri. Oggi il trauma transgenerazionale è il problema più urgente e importante della Bosniama rimane sottovalutato”.

Lo conferma Merima Sisic, 33 anni. Si occupa di progetti di democrazia e femminismo, ha vissuto in diversi paesi europei. Ma ogni decisione della sua vita è passata da una sola domanda: cosa succederebbe se scoppiasse una nuova guerra? È cresciuta in una cultura segnata dal conflitto: non chiedere ai coetanei dei loro genitori, potrebbero essere morti. Tieni i documenti pronti, nel caso si debba fuggire di colpo. “La minaccia di una nuova guerra è una nuvola sulla testa”, confessa. “Non ti senti mai al sicuro, ma vivi in tensione costante”.

Fare i conti col passato

Questa tensione affonda anche in un’assenza collettiva: la mancata riconciliazione. Snaga Žene, per esempio, prova a mettere intorno allo stesso tavolo bosniaci, Serbia e croati. Ma è un’iniziativa isolata, non c’è mai stato un percorso nazionale. “Il dopoguerra è stato traumatico e doloroso quasi quanto la guerra stessa”, scrive l’antropologa serba Tamara Šmidling in una monografia sul tema pubblicata dalla fondazione Heinrich-Böll. Il motivo, argomenta: “La società fa fatica, o si rifiuta, di guardare in faccia il proprio passato violento”.



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