Muhammed Muheisen, come è diventato fotoreporter?
Mi sono innamorato della fotografia già a 9 anni: ero incuriosito dagli strumenti, dai meccanismi. All’inizio, dopo la laurea (in Giornalismo e Scienze Politiche, ndr) volevo dedicarmi alla fotografia d’arte, perché si basa sulla luce e sui colori e trasmette speranza. Tuttavia, la vita, anzi direi le occasioni di lavoro, mi hanno portato fin da giovane da un’altra parte: ho iniziato presto a coprire i conflitti in Medio Oriente. Mi sono trovato, ancora decisamente inesperto, in Iraq: seguivo i fotografi più grandi di me, cercavo di apprendere il più possibile. Da lì in avanti ho passato anni a documentare le guerre in giro per il mondo, in Siria, in Afghanistan, in Pakistan. Ma anche in quell’occasione ho sempre cercato di mostrare la vita in mezzo alle macerie perché la vita continua e non si ferma mai. Lo vediamo paradossalmente anche ora: la vita continua ovunque, persino a Gaza.
Oggi fare il fotoreporter nelle zone di guerra è diventato complesso, a Gaza impossibile.
Viviamo in un momento molto difficile; il tesserino della stampa, che 15 anni fa garantiva rispetto, ora non conta nulla: siamo bersagli mobili. Siamo consapevoli che potremmo partire per coprire una missione, dove ancora ci è concesso farlo e magari non tornare mai più. Eppure, come tanti altri fotografi, credo profondamente nell’importanza del nostro mestiere. Se i fotoreporter non documentano i conflitti, è come se questi non fossero mai accaduti. Personalmente, questa profonda convinzione sul potere della fotografia è ciò che mi ha fatto andare avanti.
Come si riesce a fotografare persone in situazioni di profondo dolore o sofferenza?
Come narratore visivo, devi ritrarre ciò che guardi con rispetto. Davanti a te hai persone che si presentano in tutta la loro vulnerabilità. Ciò che da sempre faccio, quando sono davanti a questi soggetti, è spiegare loo che sono solo un fotografo, ma che una “foto giusta” può fare la differenza. Può essere vista da tante persone, può smuovere coscienze, cambiare le cose. Prometto loro che porterò le loro storie in tutto il mondo: non è questo che in fondo sta accadendo anche adesso qui in Italia, a Siena? Noi fotoreporter abbiamo una grande responsabilità: continuare a ricordare al mondo ciò che sta accadendo intorno a noi.